Il mio ikigai

Una delle cose che mi rende più felice in assoluto è quando qualcuno mi dice che sta rileggendo uno dei miei libri. Si può acquistare un libro per caso, o riceverlo in regalo; lo si può leggere per curiosità, e poi accantonarlo.

Ma ci sono libri che diventano un po’ come una coperta di Linus, un antidepressivo naturale, un salvagente per restare a galla quando la vita è come un mare in tempesta. Pare che il mio «Mindfulness per genitori» sia tutto questo per molte delle persone che lo hanno letto.

Quando scrivi un libro ti sembra sempre di aver fatto un buon lavoro. Poi quando viene pubblicato arriva il timore del giudizio dei lettori, la paura di aver sprecato il tuo tempo.

«Far poesie è come far l’amore» scriveva Cesare Pavese «non si saprà mai se la propria gioia è condivisa».

Nell’epoca dei social network questo non è più vero: il lettore prende la parola e ti comunica le sue impressioni. E per me è un onore immenso sapere che ci sono persone che scelgono di investire più volte ciò che hanno di più prezioso – il tempo – per leggere ciò che ho scritto. È una gioia incommensurabile sapere che, dopo averlo fatto, anche solo una persona si sente meglio. Questo dà un senso alla mia vita.

Forse è proprio questo il mio ikigai. Ricordo ancora la delusione quando, nel primo giorno della mia formazione per insegnanti di yoga, il maestro ci lesse questo passo, tratto dalleYoga Tattva Upaniṣad:

[Lo yogi] per tenere segreti i suoi poteri, agirà in questo mondo come se fosse un uomo ordinario, se non addirittura uno stolto o un sordomuto.

I neofiti, infatti, fanno un gran numero di domande e se l’adepto volesse rispondere a tutti perderebbe di vista il suo obiettivo, che è quello di progredire sulla via dello Yoga senza preoccuparsi del mondo.

Io ero lì proprio per il motivo opposto: avevo scoperto i benefici che lo yoga poteva dare a me e volevo capire come trasmetterli anche agli altri. Quando ho sollevato questa obiezione il maestro mi ha chiesto «Perché vuoi aiutare gli altri?». Sinceramente non mi ritengo una persona particolarmente generosa. Non sono una santa né una specie di Madre Teresa. Però nella vita ne ho passate tante, e ogni volta c’è stata una persona decisiva. Una persona che mi ha aiutata ad uscirne. Ecco, io vorrei essere a mia volta, per altri, quella persona. Il motivo? Riconoscenza. Gratitudine. Voglia di restituire ciò che ho ricevuto. Perché la gioia di essere sostenuti nel momento del bisogno è qualcosa di incredibile, e voglio alimentarla intorno a me.

Nel suo libro «Il magico potere del fallimento» il filosofo francese Charles Pépin scrive che chi non ha attraversato delle difficoltà non ha forgiato il proprio carattere. Probabilmente se non avessi vissuto un’infanzia difficile, costellata di persone che con la loro disponibilità mi hanno «salvata» non proverei questo senso di gratitudine e questa voglia di «rimettere in circolo» l’energia positiva che mi è stata data.

Mentre scrivevo questo post, che avrebbe dovuto avere tutt’altro titolo, ho capito qual è il mio ikigai. Il motivo per cui insegno yoga, per cui scrivo, per cui studio. Il motivo per cui vivo.

Ikigai è solo un termine «nuovo» (che, sono certa, diventerà un tormentone) per definire il nostro scopo nella vita. Un po’ come il sankalpa. E non a caso il mio sankalpa, da due anni a questa parte, è portare la luce nell’esistenza di chi mi circonda.

E tu? Sai qual è il tuo ikigai? Il motivo per cui ti alzi la mattina?