La Bhagavad Gita

Arjuna e Krishna durante la battaglia
Arjuna e Krishna durante la battaglia

La Bhagavad Gita è uno dei testi principali della tradizione induista. Si tratta di un poema epico, tratto da un’opera più ampia (il Mahabarata) attribuito al saggio Vyasa.

La Gita racconta un dialogo tra il principe Arjuna e il suo cocchiere Krishna, incarnazione del dio Vishnu, alla vigilia di una battaglia. Arjuna, principe guerriero, esita a combattere contro i suoi parenti, che si trovano nel campo avversario. Il poema racconta i suoi dubbi e le sue esitazioni di fronte a questa guerra che rappresenta, in realtà, un conflitto interiore.

I Kauravas e i Pandavas, le due famiglie che si scontrano nella battaglia di Kurukshetra, non sono altro che il nostro ego e quello che gli induisti chiamano Atman (il nostro sé essenziale, eterno, immutabile).

Arjuna si trova di fronte al dilemma: combattere contro i propri parenti per riprendersi il regno che gli spetta di diritto o lasciar perdere, perché il pensiero di continuare a vivere, dopo averli uccisi, gli è insopportabile?

Krishna lo esorta a combattere, per un motivo molto semplice: Arjuna è un guerriero e combattere è il suo dovere. I dubbi del giovane principe, infatti, non nascono dall’indecisione tra uccidere e non uccidere. Se nel campo avversario ci fossero degli sconosciuti, egli non dubiterebbe un solo istante. Krishna lo esorta quindi a praticare il non attaccamento e a non fare differenza tra i suoi familiari e il resto del mondo.

Ma per capire la Gita, che ad una prima lettura può risultare un testo contraddittorio, bisogna leggere tra le righe e identificare questi famosi “nemici”.

Lo yogi – perché Krishna è uno yogi ed esorta Arjuna ad affidarsi allo yoga per risolvere il suo dilemma – ha come obiettivo l’equanimità verso tutte le creature. Ed ecco che l’equanimità di Arjuna viene messa alla prova in questa difficile situazione.

Ma la realtà è che quella che Arjuna si appresta a combattere non è una battaglia esteriore ma una interiore. Il giovane deve lottare contro il proprio ego. Arjuna non piange i parenti che andrà ad uccidere. Piange al pensiero di come sarà la sua vita, quando questi non ci saranno più. Scivola nell’autocommiserazione. E Krishna lo esorta nuovamente all’equanimità, spingendolo a trattare se stesso come tratterebbe chiunque altro e a sbarazzarsi dei pensieri che lo portano verso la depressione.

Nel suo commento alla Bhagvad Gita, Eknath Easwaran propone una visione più profonda di questa battaglia interiore, identificando i parenti/nemici con i sensi. Abbiamo già visto come lo yogi cerchi di tenere i sensi sotto controllo. Ma, proprio come quello di Arjuna, il suo percorso non è libero da ostacoli.

 

“Non so nemmeno se sia preferibile vincerli od esser da loro vinti

[…]

La loro morte mi farà odiare la vita”

dice Arjuna all’inizio del secondo capitolo. Che senso ha conquistare il mondo se mi nego i piaceri (sensuali) della vita?

Lo yogi aspira alla stabilità. Ad una serenità immobile ed immutabile, perché non causata da eventi esterni. Così facendo, si ripropone di mantenere lo stesso (stabile, immutabile) stato d’animo di fronte a tutte le circostanze esterne. Bandirà dalla sua vita tristezza e depressione, ma anche l’eccitazione e la gioia dovuta a cause esterne. Ma ne vale davvero la pena? Si chiede Arjuna. Davvero voglio rinunciare a tutto questo? Meglio vincere questi stati d’animo o esser da loro vinti?

A questo quesito, ciascuno dovrà dare la propria risposta.

Se vogliamo trovare la pace, dobbiamo mettere a tacere il nostro ego.

Non c’è individuo né Paese che non affermi di volere la pace, ma tutti continuano a costruire armi e a diffidare del proprio vicino. Easwaran cita Bismarck che diceva: “Io non voglio la guerra, voglio solo la vittoria”. Così anche noi non vogliamo litigare con i nostri cari. Vogliamo solo che si comportino come piace a noi.

Se smettiamo di pretendere dagli altri ciò che vogliamo e iniziamo a chiederci cosa possiamo fare per loro, gettiamo le basi per una pace duratura. Se teniamo presente che, nonostante il male che possono averci inavvertitamente fatto, i nostri cari vogliono solo il nostro bene, una comunicazione sana e sincera diventa infine possibile.

La lotta quindi non è – ancora una volta – tra due famiglie ma tra due tendenze all’interno della nostra mente: quella egoistica ed egocentrica che ci spinge a preoccuparci di noi stessi, e quella che ci porta a considerare in maniera equanime tutte le creature. Se impariamo a dare importanza ai bisogni altrui quanta ne diamo ai nostri, scopriremo che quella pace a cui aspiriamo non è poi così lontana.

***

NOTA: Questo post vuole essere una breve introduzione per chi desidera avvicinarsi alle scritture fondamentali dello yoga. La Bhagavad Gita è un testo importante, profondo e complesso che non pretendo di spiegarvi in queste poche righe. Io stessa sono ancora immersa nello studio di quest’opera che vi consiglio di affrontare, se possibile, con l’aiuto di una guida, di un maestro o anche – semplicemente – di un gruppo di discussione.

Esistono numerose versioni commentate da personaggi autorevoli, e ciascuna apporta allo studio della Gita qualcosa di nuovo. Di seguito troverete elencate quelle che ho letto finora e che vi consiglio. Vi invito a segnalarmi le vostre edizioni preferite e a condividere nei commenti le vostre osservazioni.

 ***

 

Lo yoga della Bhagavad Gita – Commentata da Sri Auribondo

Gandhi commenta la Bhagavad Gita

The Bhagavad Gita for Daily Living di E. Easwaran. Questa versione in lingua inglese è purtroppo difficile da reperire ma molto interessante. Offre infatti numerose chiavi per adattare gli insegnamenti della Gita alla vita di tutti i giorni.