“Furore” e i migranti di Steinbeck

La mia prima settimana senza figli è stata terribile. Jean li ha presi con sé una domenica sera, che io ho trascorso a piangere. Anche il giorno dopo, non riuscivo a fermarmi. In preda alla disperazione, non so bene perché, gli ho telefonato. I ragazzi erano a scuola e lui stava lavorando. Ha sentito che non stavo bene e mi ha detto che sarebbe passato da me all’ora di pranzo.

Quando è arrivato non sapevo cosa dirgli. Non volevo che fraintendesse le mie intenzioni e ho subito chiarito che non rimpiangevo la decisione di separarci e che ero convinta che stessimo facendo la cosa giusta. Ma per arrivare a quella “cosa giusta” bisognava attraversare un lunghissimo, freddo e spaventoso corridoio buio. In quel momento ci ero proprio dentro ed ero nel panico. Non riuscivo a smettere di piangere.

Lui mi ha ascoltata e mi ha fatto coraggio. Mi ha ricordato che si trattava di una fase passeggera, che potevo vedere i ragazzi anche se non era la “mia” settimana, e mi ha dato un consiglio molto saggio.

Leggere per evadere

“Non è il momento di studiare, metti via tutti quei manuali e leggi qualche bel romanzo”. Mi ha stupita con questo suo consiglio. Lui legge pochissimo e di certo non romanzi, ma evidentemente mi conosce abbastanza per sapere di cosa ho bisogno.

In effetti da ormai parecchi anni leggo soprattutto saggi e manualistica. Adoro imparare cose nuove e attraverso periodi nei quali mi tuffo a capofitto in un argomento, senza mai stufarmi. In questo momento sto leggendo tutto quello che trovo sull’ipnosi e, ovviamente, non c’è nulla di male. A parte il fatto che avrei bisogno di una pausa. Di leggere per il semplice piacere di leggere. Di farmi trasportare per qualche istante in una situazione diversa da quella che sto vivendo. Del resto la mia libreria, così come il mio kindle, sono pieni di libri di ogni genere (romanzi compresi) comprati per “quando avrò il tempo”.

Così ho iniziato a leggere alcuni grandi classici che conoscevo solo di fama, tra cui “Furore”, di John Steinbeck. Io ho l’abitudine di sottolineare i libri, e in genere sottolineo frasi che contengono per me un messaggio importante. Leggendo “Furore” mi sono ritrovata, per la prima volta in vita mia, a sottolineare delle frasi non per il contenuto ma per la forma. Le descrizioni di Steinbeck sono così meravigliose che meritano di essere ricordate indipendentemente dal messaggio che trasmettono.

La trama

La famiglia Joad, cacciata dalla propria terra, sogna l’Ovest come la Terra Promessa. La loro più grande ambizione? Arrivare in California e trovare un lavoro nei campi. La riflessione di Ma’, letta in un’epoca in cui abbiamo tutto – il necessario come il superfluo – e osiamo lamentarci, è davvero toccante:

“Deve essere un bel lavoro raccogliere le pesche, Tom. Pure se non te le lasciano mangiare, magari ogni tanto te ne puoi pigliare una un po’ guasta. E deve essere bello lavorare in mezzo agli alberi, coll’ombra. Mi spaventa la roba così bella… non mi fido”.

Se un discorso del genere è oggi quasi impensabile, per noi occidentali almeno, non per questo è meno denso di significato. Altri passaggi sono invece attualissimi.

Ad un certo punto, ad esempio, Pa’ e Casy, il predicatore (o meglio l’ex predicatore) parlano di una persona molto ricca, che possiede un milione di acri di terra eppure è infelice:

“Ma che ha da essere scontento se ha un milione di acri?”

“Se gli serve un milione di acri per sentirsi ricco, mi sa che gli serve perché si sente molto povero dentro; e se è povero dentro, non c’è nessun milione di acri che lo può far sentire ricco, e magari è scontento che niente di quello che fa riesce a farlo sentire ricco…”

Proprio nei giorni scorsi parlavo degli influencer che guadagnano centinaia di migliaia di euro in una sola serata. Mentre noi li guardiamo con un misto tra invidia e indignazione per le loro vite che, all’occhio dei più, sembrano troppo facili, loro si sentono così “poveri dentro”, così soli, così insoddisfatti, che non riescono ad essere felici.

Steinback e i migranti

Ma le parti più toccanti, probabilmente per via del momento storico che stiamo vivendo, sono quelle che descrivono dall’interno la condizione dei migranti. Uno di loro racconta:

“Lì la gente ti guarda strano. Ti guardano e hanno la faccia che dice: ‘Tu non mi piaci, figlio di puttana’. Arrivano i vicesceriffi e ti strapazzano. Metti che sei accampato lungo la strada, quelli ti fanno sloggiare di corsa. Gente che glielo vedi in faccia quanto ti odiano. E… ora ti dico una cosa. Ti odiano perché si spaventano. Sanno che quando uno ha fame, la roba da mangiare se la piglia a tutt’i costi”.

Nel vederli arrivare, gli abitanti del posto si stupiscono del fatto che i migranti siano disposti a correre rischi per loro impensabili:

“Non hanno cervello e manco cuore. Non sono esseri umani. Un essere umano non ce la fa a vivere come loro. Non ce la farebbe a vivere con quella sporcizia e quella miseria. Quelli mica sono tanto meglio delle scimmie […] quelli se ne fregano. Sono così maledettamente stupidi che non lo capiscono ch’è pericoloso”

I migranti sanno benissimo quanto sia pericoloso. Ma la scelta è tra lasciarsi morire o provare a vivere, e il loro istinto di sopravvivenza permette loro di “farcela”. Di sopportare la miseria e la sporcizia, gli insulti e i rifiuti, il pericolo e tutti quei rischi che chi ha un tetto sopra la testa non si sognerebbe mai di correre.

Ci affezioniamo alla famiglia Joad perché ciascuno dei suoi membri ha un nome e una personalità, mentre per molti i “migranti” dei giorni nostri non sono visti come persone. Se riuscissimo ad immaginare le loro vite, le loro famiglie, i loro sentimenti, le loro paure, ciò che li muove non ci sembrerebbe follia ma coraggio.