Psicologia (da quattro soldi) in sala d’attesa

Qualche giorno fa ho portato Chiara dal dottore. In sala d’attesa c’erano cinque o sei persone. Chiara ha iniziato a piangere e quindi ho deciso di aspettare fuori.

Siamo rimaste davanti alla porta a passeggiare avanti e indietro, ma siccome faceva freddo dopo un po’ ho deciso di ritentare. Niente da fare, in sala d’attesa non ci voleva andare. Ma nemmeno io volevo cedere: fuori al freddo, neanche morta.

Così ho preso un libro nella saletta e mi sono seduta insieme a Chiara su un gradino nel corridoio. Dopo aver letto un po’, Chiara si è rilassata e ha accettato di andare a sedersi in sala d’attesa.

Nel frattempo è arrivata una mamma con un bimbo più o meno della sua stessa età. Contrariamente a Chiara, il piccolo non ha protestato all’ingresso nella sala. Anzi, si è subito seduto al tavolino e ha iniziato a sfogliare alcuni libri. Dopo una prima occhiata veloce ha iniziato a portarli, uno ad uno, alla mamma. Si sedeva, sfogliava il libro, poi si alzava e lo portava alla mamma. Comportamento del tutto normale (anzi, oserei dire auspicabile) in una situazione del genere.

Purtroppo però le seggioline del dottore facevano rumore quando il piccolo le spostava per sedersi e per alzarsi. La mamma, probabilmente per paura di disturbare gli altri pazienti in attesa, ha detto al bambino di stare fermo. O seduto o in piedi. Il piccolo si è seduto e ha modificato la sua attività in base alle istruzioni della mamma. Invece di portarle i libri, li posava uno ad uno per terra. Non li gettava per terra. Li riponeva accuratamente uno sull’altro, senza alzarsi dalla sedia e senza fare rumore.

Ma nemmeno questa soluzione piaceva alla mamma, che ha detto al bambino di smettere e lo ha preso in braccio.

A questo punto il bambino ha iniziato a piangere e a dimenarsi. Mentre la mamma tentava invano di calmarlo, tutti gli sguardi erano puntati su di lei. E qui scatta la psicologia da quattro soldi. In situazioni analoghe, magari con troppe notti insonni alle spalle, lo sguardo altrui mi sembrava un pesante, insopportabile giudizio.

Mentre la guardavo avrei voluto dirle di rilassarsi. Che non c’è niente di male ad alzarsi e sedersi. Che il rumore della sedia non dava fastidio a nessuno. Che il modo in cui il piccolo giocava con i libri non aveva nulla di irrispettoso. Suppongo che lei abbia interpretato lo sguardo degli altri presenti diversamente, perché ad un certo punto ha preso stizzita il bambino e ha deciso di andarsene.

Proprio in quel momento il dottore chiamava il paziente successivo. Toccava a me, ma vedendo lei in piedi, il medico ha pensato che fosse il suo turno. Chiara era seduta tranquillamente e sfogliava un libro. Così ho ceduto il mio posto a quella mamma esasperata.

Non ho osato rassicurarla riguardo al comportamento del suo bambino. Spero però, con questo gesto, di averle fatto capire che nessuno la giudicherà una cattiva madre perché suo figlio fa rumore spostando una sedia o impila diligentemente alcuni libri sul pavimento.

Quando siamo stanche, stressate, in preda al senso di colpa, è facile perdere il contatto con la realtà. Quando vogliamo a tutti i costi far vedere che siamo all’altezza della situazione, che sappiamo gestire i nostri bambini, che sappiamo educarli in modo che si comportino bene, siamo in balìa del giudizio altrui. Non solo del reale giudizio altrui, ma anche di quello che supponiamo gli altri pensino di noi.

Troppo contorto? Probabilmente sì, ma sono sicura che tutte voi mamme capite perfettamente cosa intendo.

Se non sempre osiamo intrometterci nelle vite altrui per dispensare consigli, scambiamoci almeno uno sguardo, un gesto, una gentilezza. Perché quando siamo in preda al senso di inadeguatezza ci sentiamo terribilmente sole. In quei momenti, un gesto semplice o anche solo un sorriso può fare la differenza.