Aiutare i rifugiati: aprire la propria casa, aprire il proprio cuore

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Photo credits: Rodrigo Soldon on Flickr

All’indomani della pubblicazione della foto che ha sconvolto il mondo intero, la radio francese RMC info ripropone un sondaggio già sottoposto agli ascoltatori nel mese di agosto: siete favorevoli all’introduzione delle quote obbligatorie per i rifugiati? I francesi rispondevano «no» qualche settimana fa e rispondono «no» anche oggi.

Navigando sui social network non leggo altro che inni all’accoglienza ma parlando con le persone dal vivo la maggior parte sospira affermando che «non ce lo possiamo permettere». Si parla, ovviamente, non dei singoli, ma del Paese. Quel Paese che ha la fraternità tra i suoi tre valori nazionali.

Da straniera apprezzo gli aiuti, economici e sociali, che questo Paese offre. Ma da italiana so che senza si vive. Meno bene, magari, ma si vive. Non ho quindi paura che mi vengano tolti o ridotti. La maggior parte dei francesi* con cui ho parlato invece li considera imprescindibili e teme di vederseli sottrarre in favore dei rifugiati. Teme di ritrovarseli sotto casa, sdraiati su un materasso sul marciapiede. Perché «se non possiamo offrirgli un tetto e un lavoro, è inutile accoglierli» affermava questa mattina Nadine Morano, ex ministro e deputata al parlamento europeo.

Forse non possiamo offrirgli un tetto e un lavoro (facciamo finta che non ci siano immobili fantasma costruiti per cavalcare l’onda delle leggi sulla defiscalizzazione, né posti vacanti che molti di noi rifiutano) ma, tanto per cominciare, potremmo offrirgli la vita. Credo che, al posto loro, preferirei dormire su una panchina piuttosto che morire o dover seppellire tutti i membri della mia famiglia.

Uno scenario del genere non è certo quello in cui desideriamo vivere e crescere i nostri figli. Ma se riuscissimo a guardare i loro figli con gli stessi occhi con i quali guardiamo i nostri, forse saremmo maggiormente disposti a cedere un pezzetto della nostra pagnotta, e a sopportare la vista di queste persone in difficoltà. Se riuscissimo a provare empatia, non ci sarebbe nemmeno bisogno di farli, questi sondaggi.

Abbiamo (certo, mi ci metto anche io) paura che il caos invada le nostre strade e le nostre città, ma non proviamo compassione per chi da quel caos tenta di fuggire. Non riusciamo ad immaginare di trovarci al loro posto e di vederci sbattere la porta in faccia (sempre se fossimo stati abbastanza fortunati da sopravvivere all’esodo).

Di politica non mi intendo e non ho soluzioni miracolose. La signora Morano, citata poco sopra, parlava del fatto che aprirsi ai rifugiati equivarrebbe ad incentivarne la fuga, aumentando il numero di disperati che si imbarcano in condizioni non appropriate. Anche questo è vero. Anche a questo bisogna trovare una soluzione.

Quello che maggiormente mi colpisce, in tutta questa storia, è l’individualismo dell’essere umano. Ho parlato dei francesi perché è con loro che discuto ogni giorno, e perché i risultati del sondaggio proposto questa mattina alla radio mi hanno fatto riflettere sull’argomento, ma mi riferisco in generale a tutti i cittadini delle terre in cui questi disperati sbarcano o tentano di sbarcare.

La questione è indubbiamente urgente, ma alle azioni immediate bisogna – credo – affiancare un progetto educativo a lungo termine. Dobbiamo educare i nostri figli all’empatia, e c’è un solo modo per farlo: l’esempio.

Cominciamo con l’aiutare chi abbiamo vicino.

Quando, da ragazzina, ho espresso il desiderio di fare volontariato, mia mamma – una delle persone più sagge che io conosca – mi ha risposto: «Bene, allora vai a trovare tua nonna, che vive sola, non sta bene e ha bisogno di compagnia». Io avevo pensato di unirmi a qualche associazione, di andare a servire alla mensa dei poveri, di andare a trovare i bambini in ospedale. Ma proprio lì, a pochi isolati, c’era mia nonna. Era anziana e sola. Passare del tempo con lei non era gratificante (perché nel volontariato, in fondo, cerchiamo anche la gratificazione di sentirci “buoni”). Ma era mia nonna. Aveva bisogno ed era lì, vicino a me. Era da lì che dovevo partire.

Per educare i nostri figli all’empatia, mostriamo empatia. Nei confronti di chi ci sta attorno, tanto per cominciare. Poi anche riguardo alle cause importanti.

Perché vanno bene le belle parole, proclamate a voce o scritte su facebook (ma ricordiamo che un “like” non ha mai salvato la vita a nessuno). Va benissimo fare donazioni alle associazioni che aiutano i rifugiati. Ma quale messaggio più grande, per i nostri figli, che accogliere in casa una famiglia (o anche una sola persona) di rifugiati?

  • La vostra casa è troppo piccola? La loro non c’è più. Forse vi potreste stringere un po’.
  • Non siete benestanti? Loro si considererebbero ricchi se avessero ciò che possedete.
  • Non vi fidate? Avete paura? Ecco. Proprio per questo dobbiamo educare i nostri figli all’empatia.

Se desiderate offrire ospitalità ai rifugiati, potete rivolgervi alla CIAC. In Francia se ne occupa SINGA.

Noi ne stiamo parlando. E voi?

 

*attenzione, questa non vuole essere una critica nei confronti del popolo francese. Parlo di loro perché è con loro che vivo e ho commentato i fatti. E sono felice di parlarvi non solo della percentuale che si oppone alle quote per gli immigrati, ma anche di chi si attiva per accoglierli in casa.