“Non Attaccamento” NON Significa “Indifferenza”

Non attaccamento

Nei testi tradizionali dello yoga (come in quelli di molte filosofie orientali) si fa un gran parlare di “non attaccamento”. Un concetto che è stato, per me, piuttosto difficile da afferrare.

Quando si parla di “non attaccamento” ci si riferisce a cose, persone, situazioni, opinioni… addirittura all’attaccamento alla vita.

Se mi poteva piacere l’idea di vincere l’attaccamento nei confronti delle cose e delle situazioni, e persino quello alla vita stessa, mi riusciva inconcepibile aspirare al non attaccamento alle opinioni, e soprattutto alle persone. In quanto madre di tre figli, staccarmi emotivamente da loro mi sembrava non solo impossibile ma anche poco auspicabile. Per quale motivo avrei dovuto smettere di amarli?

Il mio ragionamento si basava su alcuni errori fondamentali:

1. Confondere attaccamento e amore

Attaccamento significa volere che l’oggetto del nostro amore stia vicino a noi, anche a costo di manipolarlo (consciamente o inconsciamente), autoconvincendoci che lo facciamo “per il suo bene”.

Amore, invece, significa lasciare andare. Significa desiderare la felicità dell’altro, anche se questa è indipendente dalla nostra. (Stavo per scrivere “a scapito della nostra” ma l’affermazione sarebbe stata contraddittoria: se desideriamo DAVVERO  il bene dell’altro non possiamo non essere felici quando lo ottiene).

Belle parole, tutti le abbiamo lette, ascoltate o pronunciate almeno una volta nella vita. Tutti le condividiamo, almeno in teoria.

Tutti siamo pronti a giurare che lasceremo liberi i nostri figli di fare le loro scelte senza tentare di trattenerli o di influenzarli.

Un po’ più difficile è “lasciar andare” una persona di cui siamo innamorati, o continuare ad amare qualcuno che ci ha delusi, per il semplice fatto di non aver soddisfatto le nostre aspettative.

Quando amiamo qualcuno, lo appoggiamo, lo sosteniamo, lo aiutiamo nei momenti di difficoltà. E ci aspettiamo che questa persona faccia lo stesso quando saremo noi ad avere bisogno. Se questo non avviene, ci sentiamo traditi, delusi, offesi. E, convinti di aver ragione, possiamo arrivare fino a decidere di negare a questa persona la nostra amicizia.

Dove è finito tutto il nostro amore? Quel sentimento disinteressato che porta a fare del bene senza aspettarsi nulla in cambio?

Se non riscuotiamo ciò che – secondo noi – l’altro ci deve, questo “amore” svanisce come per magia.

La verità è che non si trattava di amore, ma di convenienza. E non uso questo termine in senso negativo. Si trattava di un rapporto che faceva stare bene entrambi, quindi positivo per entrambi. Nel momento in cui la persona non ci da più quello che noi ci aspettiamo (o addirittura pretendiamo) smettiamo di “amarla”.

A molti di voi questo sembrerà logico, addirittura giusto. Anche perché il confine tra amare incondizionatamente e diventare un “tappetino” è davvero difficile da definire (a tale proposito vi consiglio vivamente il libro “La mia vita per la libertà“, l’autobiografia di Gandhi).

Ma se iniziate a rifletterci, con il passare del tempo vi accorgerete che questo concetto apre una breccia nel vostro cuore, e vi scoprirete capaci di amare anche chi vi fa soffrire, intenzionalmente o meno.

Ora vi starete chiedendo perché mai dovreste amare chi vi fa soffrire. La ragione è molto semplice e possiamo anche considerarla da un punto di vista puramente egoistico: odiare fa star male; amare fa star bene.

E voi, come vi volete sentire? Io bene, grazie.

2. Pensare che “non attaccamento” significhi interessarsi meno alle persone che amiamo

Sbagliato. “Non attaccamento” significa interessarsi a tutti in egual misura. Ai nostri familiari come agli estranei, a noi stessi come ai nostri nemici.

Facile, vero?

Sto per confessarvi una cosa terribile.

Quando ho fatto per la prima volta l’inserimento alla materna con mio figlio, c’erano contemporaneamente altre mamme con i loro bambini, e altri bambini già “inseriti”. Uno, in particolare, era particolarmente capriccioso e disturbava tutta la classe. A me dava parecchio fastidio. Un’altra mamma, invece, accorreva sempre per consolarlo e cercare di calmarlo. Lasciava suo figlio – che era comunque tranquillo – per occuparsi di quella piccola peste.

La guardavo con aria interrogativa. Non provavo nemmeno ammirazione nei suoi confronti. Mi chiedevo semplicemente come potesse aver voglia di occuparsi di quel bambino insopportabile invece che del suo, che era così carino e bene educato. Io ero lì per mio figlio, non certo per fare da baby-sitter a quelli degli altri.

Apparentemente, questa esperienza non mi ha insegnato nulla. Anzi, a rileggermi, mi sto antipatica da sola. E invece osservare quella mamma ha probabilmente gettato un seme nel mio cuore, e oggi mi ritrovo – senza aver fatto nessuno sforzo per cambiare – ad agire esattamente come lei.

Sarà l’esperienza, sarà il percorso personale intrapreso, sarà la maturità… non lo so. Fatto sta che oggi per me è spontaneo occuparmi (soprattutto quando si tratta di bambini) di chi ha bisogno e non di chi “è mio”.

Sono ben lontana dal dire che amo tutti i bambini quanto amo i miei. È un obiettivo che forse non raggiungerò (almeno in questa vita ;-)), ma so che sto camminando in quella direzione.

Certo, amare i bambini – per quanto insopportabili – è più facile che amare gli adulti (soprattutto quelli che non rispondono alle nostre aspettative) ma una volta gettato questo seme, basta un po’ di acqua e tanta luce per farlo crescere. Ci vorranno anni per vederne i frutti, ma la presa di coscienza è senz’altro il primo passo per vederlo germogliare.

3. Identificarsi con le proprie opinioni

Identificarsi con le proprie opinioni significa precludersi un sacco di esperienze. Non solo, volerle difendere a tutti i costi può portare a rotture dolorose (per non parlare delle guerre).

Ancora una volta, non vi sto esortando a piegarvi passivamente accettando senza fiatare quelle altrui. Vi esorto però a mettervi in discussione.

Quando i miei figli snobbano un piatto che ho preparato per loro, con la scusa del “non mi piace”, li invito ad assaggiarne almeno un po’, spiegando loro che i gusti cambiano, e che tante cose che un tempo non mi piacevano, ora mi piacciono. Che peccato se non avessi riprovato ad assaggiarle! A volte capita così anche a loro, e questo fa sì che, la volta successiva, siano meno diffidenti.

Non dimenticate inoltre che le nostre opinioni più radicate sono spesso fondate su abitudini e pregiudizi che ci sono stati inculcati fin da quando siamo nati, e che non abbiamo assimilato senza troppo spirito critico. Quando ci troviamo di fronte a qualcuno che contrasta le nostre idee, approfittiamone per rimetterle in discussione.

4. Attaccamento alla Vita

Questo è senz’altro l’ultimo stadio del non-attaccamento, e credo di esserne ancora ben lontana. Ne parlerò quindi servendomi dell’esperienza altrui:

Nel suo libro “Passage Meditation” Eknath Easwaran racconta un episodio della sua infanzia. Sua nonna gli chiese di aggrapparsi alla sedia su cui era seduto con tutte le sue forze, poi lo strappò via, facendogli male. Poi gli disse di sedersi nuovamente e di non opporre resistenza, e lo prese affettuosamente in braccio.

Il messaggio che voleva trasmettergli era questo «La morte arriverà, prima o poi. Per quanto tu ti aggrappi alla vita, questa ti verrà tolta. Il tutto avverrà molto più serenamente se saprai capire quando è il momento di mollare la presa».

Come nel raggio del sole mattutino un petalo di ciliegio si stacca e scende a terra luminoso e sereno, così l’uomo impavido deve potersi staccare dall’esistenza silenziosamente e senza turbamento.

(E. Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco)